LE CASE DI PONTEVECCHIO SUL BARDINE

 

STUDI  STORICI

MISCELLANEA

In onore di

MANFREDO  GIULIANI

« Giovanni Capellini » della Spezia e della

Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi

(Biblioteca di Villafranca in L.)

 

“LE  CASE DI  PONTEVECCHIO SUL BARDINE ”

Mario N.  CONTI

 

Sulla sponda destra del torrente Bardine, all’altezza della confluenza del Botròn e prima di quella con il fosso di Otrà, rimangono, per molta parte conservate ma deserte ed in abbandono,  “le case di  Potevecchio” .    Il luogo, l’impianto e la nobiltà di espressione suggeriscono un esame ed uno studio.

      Il toponimo indicherebbe l’esistenza di un manufatto per l’attraversamento del torrente in luogo del disagevole guado che vuole l’attuale mulattiera, ed esistenza di un manufatto diverso da quello che è stato ‘voltato’ sullo stesso torrente cinquecento metri più a valle e che per essere più recente ha giustificato al primo l’appellativo di ‘vecchio’.

        Il nuovo, della luce di 11 metri, che ha la comune sagoma dei ponti tardo-medievali ed il profilo sull’asse a schiena d’asino, ha linea di slancio e di equilibro; nella faccia a monte della sua spalla in sponda destra una grande bozza scura, visibilmente posta in sito in rimaneggiamento della stessa spalla, ha una iscrizione di non facile interpretazione, che s’iniziava con M I I I V da leggere forse con MDIV, cui in un secondo tempo e con caratteri epigrafici diversi è stato premesso A.D. 1746.  Ma la struttura muraria, le malte, l’uso del calcestruzzo a formar l’intradosso della volta con geometrica regolarità accusano per la costruzione del ponte una data che deve essere posta tra le due ora ricordate, se pure la prima-non letta ancora l’iscrizione – si riferisce sicuramente al ponte. Questo non ha sostituito l’antico; le due opere non hanno ne hanno potuto avere alcuna relazione viaria, appartenendo una, la più recente, alla strada che scende  da Marciaso, l’altra a quella che dalle selle tra i monti Bastione, Pizzacuto e Pizza conduce ora a Tenerano.

        Quest’ultimo itinerario è forse secondario o più recente: più probabile che dalle case di Pontevecchio la strada più antica, per i luoghi degli abitati di Bardine e di Cecina, si dirigesse anche un tempo a Viano e, per Vezzanello Campiglione Cortila, portasse, come oggi, a Gragnola.

        La variante per Tenerano al Lucido sotto Monte dei Bianchi è da assegnare all’epoca nella quale , rispetto il centro del territorio di Viano, Monte dei Bianchi – qualunque sia stato in quel momento la sua precisa entità – aveva maggiori relazioni con i territori oltre il giogo del Bastione e della Pizza.

Il noto ritrovamento a Cecina della iscrizione del  1° secolo può essere modesta conferma, non indizio e nemmeno prova; questa è da ricercare piuttosto negli insediamenti  alto-medievali che hanno portato più tardi  (sec.  VIII ?) alla creazione della pieve di Viano.

         In quel territorio scesero da Lucca, è noto, più gruppi longobardi;  in quella valle sorse la chiesa il documento di fondazione della quale è in ordine di data tra le prime carte lucchesi; e là, poco discosto, sul Pesciola affluente del Bardine , era il luogo ubi  dicebatur  Waldo  finibus  lunensis.

         Così che con la citazione in vico coloniensi dell’atto del 728, con il richiamo alla corte trans  montem  ad  sanctum cyprianum  dell’atto del 793, con il ricordo della  curtis  de  colognola è possibile – pur anticipando talune conclusioni – intravedere sulle colline serrate tra il Pesciola, il Bardine ed il Lucido quella realtà, dapprima forse soltanto geografica o distinta solamente per il vico, poi più caratterizzata fino alla creazione della pieve.

        Dai pochi atti superstiti appare tuttavia chiara una spinta o, meglio, una tendenza degli uomini e forse anche della chiesa di Lucca, trans montem, verso occidente ed alla quale si opponeva da Luni una sottile resistenza, quella stessa che ha favorito, se non creato, la leggenda di San Terenzio ad affermazione anche di indicazione divina sui limiti della giurisdizione lunense.

         Il Repetti  ha precisato essere « il Monte Forca o della Spolverina il varco ove passa  la strada che da Carrara porta a Fivizzano». Monte Forca è oronimo ora interessante, per essere ricordato più volte in documenti  del Codice Pelavicino, sia nella indicazione dei confini del  1.  Panagatulo, sia maggiormente per l’altra dell’ospedale  Montis  Fulculi  e delle sue cappelle dedicate a San Sisto e San Brancaccio. Ma presso la Spolverina vanno ancora posti la Foce di Motorbulo (toponimo ancora vivo) ed il passo di Stancacaballo per i quali dalle valli del Parmignola e del Bettigna (quindi da Luni) si passava per quelle del Pesciola e del Botron all’altra del Bardine.

         A parte la diversa importanza che hanno avuto nel tempo, le strade della zona del Forca sono state quella che da Luni  per Pulica Bidola si dirigeva verso Genova , la Luni Gragnola per Lucca e la Carrara Gragnola (oggi in corso di ricostruzione come rotabile) che doveva innestarsi sulla precedente.

          Al valico un’ospizio; esso però è più tardo delle epoche prima ricordate perché va riferito senza dubbio alla fine dell’ XI secolo od al principio del seguente.

          La dedica dell’ospedale, a sua volta è indicativa: S. Sisto. Quando lo studio dei loca santorum in Lunigiana sarà completato arriveremo  ben più oltre di quanto non prevedesse il Bognetti nel suo studio; così come arriveremo, nell’esame dei nostri ospedali , ad altre interessantissime conclusioni.  In Lunigiana, intanto , tre ospedali  hanno la dedica a quel santo: quelli di monte Forca, di Pradarena  e l’altro di Ripa. 

        Non trascurabile ed interessante invece ancora la coincidenza che

ad essi siano riferite insistentemente tradizioni matildiche, non tanto perché queste debbano senz’altro ritenersi valide nell’affermazione, ma perché  rappresentano traccia di relazioni e di dipendenze con Canossa  ed i Canossiani  che studi in corso chiariranno meglio nella origine e nei rapporti con le terre al di qua dell’Appennino.

          Veduto in tal modo e sotto questi profili il territorio della pieve di Viano, il luogo dell’attraversamento del Bardine, scelto e determinato ai piedi delle pendici del Forca dove il torrente piega decisamente a settentrione consentendo o facilitando anche l’avvio stradale verso le opposte pendici nella conca, che son sempre degradazione del Forca e del Sagro, diviene logica pausa al percorso per chiarimento di indirizzo, così come l’ospizio al valico era stato, per le provenienze dal litorale, punto di respiro di raccolta e forse

di precisazione ( qui non la funzione, ma la ragione della dedica a S. Sisto).

          I gruppi di case di Pontevecchio hanno disposizione a T ; si sviluppano principalmente sul lato superiore della tavola e su quello di sinistra del gambo, ad istintiva ( perciò umana ) e naturale precisazione della funzione dell’abitato. Sul gambo corre la strada che scende in sponda destra del torrente verso Bardine (paese); sulla tavola sale la dura mulattiera verso Tenerano.  Ma una distinzione si osserva anche nelle strutture delle fabbriche e sotto l’aspetto architettonico, perché la parte sul gambo è più pacata, più dimessa, imposta da artefice che riproduce e che non crea.

          La schiera degli edifici sulla tavola del  T  discende invece da una ben chiara impostazione  architettonica, anche se le realizzazioni si siano succedute, com’è naturale, nel tempo e sotto preoccupazioni diverse : vi ha dominato, voluto e riconosciuto o meno, un indirizzo, prodotto di tradizioni, quasi che l’abitato avesse una funzione o servisse a scopi di un tempo ben più lontano di quello nel quale evidentemente fu costruito, perché –  nonostante il sopravvivere in Lunigiana di forme e di istituti altrove superati – è difficile pensare che al secolo XVI , od intorno ad esso, nell’angusta conca dell’alto Bardine sussistesse ancora una masserizia centro di una corte. Certo, taluni aspetti e diverse caratteristiche di quegli organismi permangono, ma permangono a sottolineare, in una meravigliosa caratterizzazione, insieme di lingua e, per non avvertita tradizione, di naturale spontaneità, la vita ad economia limitata e la saltuarietà dei contatti cui gli abitanti di Pontevecchio erano fatalmente soggetti. (mappa pag. 74).

La schiera è in due parti staccate da cortile di modeste dimensioni, come tutto l’insieme di Pontevecchio; al cortile si accede dalla strada per atrio ancor più modesto, aperto ad arco  verso l’interno. Qui la scala che adduce al primo piano, qui gli accessi ai vani terreni ed interni, coperti da volte a botte o nascosti da archi; una pausa raccolta e silenziosa. Sul cortile si aprivano al primo piano una loggia a due luci poi accecate e dal corpo più a settentrione  due piccole garbate finestre. Più a nord seguono edifici più tormentati  sia nella costruzione che dal tempo; il secondo, cominciando appunto da quella parte, che lascia aggettare verso strada per circa due metri il seguente, ha strutture forma disposizione di piccola torre alla quale sul lato di mezzogiorno era affiancato un modestissimo vano di ingresso, sopraelevato sulla strada ed al quale si doveva accedere per un terrazzo con scala di lato ed aperto inferiormente, se nell’edificio che segue s’apre in corrispondenza ed al livello della strada una piccola e bassa porta ad arco acuto.

          Delimitava esternamente l’ingresso una lesena(elemento architettonico in forma di pilastro incassato verticalmente in una parete) in pietra, di circa 12 cm. di fronte per 6 cm. di aggetto, ed ottenuta con elementi di circa 60 cm., lesena che forse aveva anche funzioni statiche o di supporto alla copertura del terrazzo.

          Più a nord il gruppo una volta continuava: rimangono ora solo evidenti avanzi di murature; la chiusura di un vano di porta sulla testata, oggi, della prima casa lo conferma, sebbene manchi ogni traccia di unione o di collegamento tra le murature.

          La parte degli edifici a valle del cortile, nonostante più curata struttura sono i più danneggiati dal tempo e dall’abbandono; essi dovevano riguardare o comprendere la parte di ospitalità di maggior rilievo, dopo, si intende, il fabbricato del cortile. Sulla fronte di questo gruppo una bella edicola racchiudeva un marmo con rilievo di madonna, di buona fattura tardo – cinquecentesca, in loco fino allo scorso anno (1964?).

         Gli altri gruppi  svolgentesi  sulla gamba del  T  sono su due linee, di maggiore estensione quella sul lato a nord, che apre quindi le finestre a mezzogiorno. Per la differenza tra gli sviluppi fronteggia, allargata a piazzetta, la strada. La piazzetta è pavimentata, così come lo è l’ingresso al cortile ed il cortile stesso nell’altro gruppo: grosse pietre con faccia piana disposte per la

irregolarità della loro sezione orizzontale a marcata distanza tra loro, creano, con gli interstizi marcati dal verde delle erbe, un suggestivo richiamo a più preziosi elementi di signorili complessi.

Le ultime fabbriche dove la strada scende al fosso di Otra (Otrà) hanno aspetto più rustico ed una ha anche la facciata rabboccata con malta.

         Nel primo corpo, che forma angolo sulla piazzetta e sull’incontro delle strade, altra edicola, minore, altro marmo, più pregevole ed anch’esso ora scomparso.

         Tutti gli edifici hanno pianta di rettangolo irregolare ed hanno lati poco lunghi, dai 4 ad un massimo  di 8  metri. Le piante, ad eccezione di quella della fabbrica nel cortile, sono di semplicità assoluta : uno o due vani contigui, senza ricerca, linearmente. Le altezze sono ancor più modeste perché da  2  metri dei locali sul cortile, od anche meno, a fianco della torre, si passa ad altezze non superiori ai  m. 2,60 così che la gronda degli edifici non supera i  5,50 ÷ 6,00 metri in quelli più a valle.

E’ caratteristica del  gruppo di Pontevecchio la assoluta modestia delle dimensioni, fuor che  nelle aperture  di poche porte di accesso che, appunto per la limitazione delle altezze, appaiono ben più larghe di quel che in effetti  non siano ( da m.  1,15  a  1,56). Ma questa modestia contribuisce notevolmente a rendere l’insieme quasi  fiabesco, siccome case  per un racconto per bimbi, insieme che ha marcata nobiltà di linee  d’architettura  minore e rustica: non nei maggiori monumenti soltanto v’è la forza imposta dai grandi ma anche nelle espressioni  d’una vita costretta tra i boschi, in fondo ad una valle angusta, può segnarsi la sensibilità di un artista, nascosto in oscuro maestro muratore cui nessuno mai commise opere di grande rilievo. Non esagero, anche se la suggestione del rudere mi sia forte, nell’affermare che l’angolo a valle s’impone per la sua validità artistica nella sapiente disposizione delle pietre e delle bozze e nel segnare, nel contrasto delle luci sui muri diversamente trattati, la fuga delle fronti.

        La disposizione dei gruppi degli edifici sembra fatta con preordinato disegno, e con così  accorta maestria da lasciar quasi scorgervi  la impostazione di quegli indirizzi che saranno, secoli dopo, insegnati nelle scuole di architettura.

         Il piccolo apparente pianoro che si spinge, embrionale contrafforte, nell’ansa del Bardine , costretto nel terzo lato dal fosso e che ha per costituzione  idro-orografica  i bordi cadenti  sulle rive, è solcato da una strada tracciata a  Z  e che, resa ripida ora dal torrente, (un tempo, esistendo il ponte, a diversa pendenza) si sviluppa piana per ridiscendere poi dolcemente al fosso; dall’asta della zeta  segue sul pendio naturale un braccio di altra strada che si dirige al monte: il pianoro è sosta, sia sede. Ed i gruppi di case sono raccolti in corpi attorno alla creata piazzetta, quasi a racchiuderla e sul percorso per il monte l’ultimo gruppo, leggermente più in alto, a dominare e forse proteggere. Nel corpo più prossimo al ponte i piccoli migliori edifici, la torre ed il centro della corte in alto, mentre sulla piazza sorgono gli edifici  che paion di residenza ed in fondo, o a nord ed a chiudere da questa parte la piazza, gli edifici per gli addetti. Ma tutto questo che qui per necessità di esposizione vien descritto con termini ch’hanno sapore di tecnica, nel piccolo centro di Pontevecchio si stende e si sviluppa con semplicità, spontaneamente : segno e riprova di non comune capacità del  «maestro».       (inserire foto)

Sulla piazzetta, ma prossime al nodo stradale, le edicole, di religione. Più suddivise le case del gruppo che par possibile chiamare di ospitalità, più grandi quelle del dominante, diverse nelle ampiezze e nella forma quelle al centro, quasi frazionate per più minuti bisogni quelle a nord che paion assegnate agli addetti; da questa impostazione di «caratteristica» discende la formulazione delle piante e, in queste, il posto delle aperture che son disposte senza richiamo a prefissati intervalli o a regole di simmetria, ma soltanto dove dètta logica di movimento o di illuminazione.

        L’artefice disponeva di pietre soltanto; ma della pietra egli conosceva in sommo grado le qualità, sia lecito dire anche il sapore: la pietra egli ha usato diversamente, utilizzando solo i minori riflessi, perché nella continuità delle fronti i passaggi non riuscissero pesanti, e con la pietra, usando la pietra, ha corretto la pausa dei vuoti, ha dato linee di equilibrio alle piccole case, serena se pur scura armonia alla schiera.

          La muratura delle fronti verso la piazzetta nel gruppo più a valle è ottenuta con elementi di dimensioni  generalmente piccole, poco corretti col martello, con uso di pochissime scaglie, lasciando i giunti marcati a che il livello degli scapoli fosse maggiore; quella del fianco, sul tratto di strada che scende al Bardine, ha elementi più grandi con faccie a vista piane, ha qualche scaglia e i giunti meno appariscenti. Diversa è la posizione delle due fronti rispetto la luce: la prima è quasi tutto il giorno in ombra ed è illuminata di taglio solo sul tardi quando l’altra è ancora in piena esposizione al sole. L’uso inconsueto davvero nel tempo di siffatta disposizione, che sembra opporsi all’efficacia, mostra in sito, oltre la assoluta validità artistica, la predisposizione e non la occasionalità o la dipendenza dalla disponibilità del materiale; e mentre la fronte al Bardine non pare avesse aperture, la facciata a piazza, oltre le porte e le finestre, porta l’edicola

profonda  cui la base ed il contorno  in pietra, diversa morfologicamente da quella del campo, conferiscono  per le ombre un marcato rilievo. Il bianco del marmo che vi era racchiuso dava fino allo scorso anno un senso do grande riposo un mistico richiamo di silenzioso raccoglimento.

Dopo l’edificio dell’edicola del quale rimane lo spigolo a monte a mostrar l’uso e la disposizione delle bozze, e quindi dopo la piazzetta e verso monte, la muratura è più calma, sebbene più serrata, forse per il maggior uso di malta che lascia tuttavia alla pietra l’assoluto dominio.  

Qui la luce diretta giunge solo la sera.

        La muratura delle parti  intorno  alla corte è ancora più calma e più ricca di malta: ma

l’opus è più incerto così che l’aspetto, particolarmente verso gli esterni, è quello del rustico, e ,

forse, un poco del piatto, nonostante che le linee – troppo è dir le masse – gli spigoli e le forme

qui aggrazino e molto ravvivino. Gli archi e le volte sono  ottenuti  con conci sottili, così che la

malta, particolarmente nelle volte, ha dovuto essere più abbondante: elemento che contribuisce

a far ritenere limitato l’uso del martello per correggere o per dar forma agli scapoli.

         Più a monte ancora le dimensioni delle pietre sono ancora minori e le murature assumono

l’aspetto comune delle forme cinquecentesche in Val di Magra.

         Il gruppo che fregia per lungo la piazzetta mostra una mano diversa ed una minore attenzione : gli elementi strutturali ripetono, è vero, quelli dei primi due gruppi, ma le murature

non hanno la stessa continuità ola stessa disposizione ritrovata prima, e, mentre lungo la strada

per il monte si susseguono secondo le esigenze porte arcuate ( le maggiori ) e porte architravate

( le altre ) alle quali però l’architrave a profilo superiore curvilineo e d forte altezza tempera o corregge l’effetto della discontinuità, nel gruppo sulla piazza l’architrave rettilineo sulla porta che segue l’arcuata segna  e sottolinea la difformità e la disuguaglianza. Ma la piena luce per tutto il giorno e su tutta la fronte distoglie da questi esami o ne attutisce le conseguenze.

          Di secondaria importanza, e lo stato di conservazione e le modifiche fatte forse per più recenti usi concorrono a questa impressione, sono le strutture e le forme dell’ultimo gruppo, a nord.

La disposizione a schiera dei due gruppi sulla strada verso monte – la tavola del   T  - aveva nel movimento dei  piccoli  corpi un gioco dei piani e di altezze, a quanto è possibile ora dedurre nella parziale rovina della fabbrica qui detta della torre, doveva essere di notevole effetto perché di ben misurato equilibrio. Ai due aggetti  su strada rispondevano, sulla strada in pendenza, altezze diverse delle case e numero diverso di piani, ed al maggiore aggetto corrispondeva l’altezza minore nella

fabbrica  del vano di accesso alla corte. Nella fronte del corpo sulla piazzetta le differenze di altezza non dovevano apprezzarsi  invece per una continuità e per la modestissima pendenza della piazza.

         Porte e finestre erano mostre di contorno, sempre, a staccare il limite del vuoto, a correggerne il valore di tempo e di misura. Le mostre, se pure diverse tra loro, sono sempre sullo stesso piano delle murature, fatta eccezione per i davanzali che verso strada aggettano per tutta l’ampiezza del vuoto e delle mostre laterali , a sottolineare la partecipazione di queste alle finestre.

Le mostre, in pietra, sono in elementi maggiori  ed in materiale diverso – più chiaro, quasi spugnoso e morbido, a contrasto della pietra dura e liscia dei campi – nel gruppo più a valle, ove i vani sono architravati e l’ architrave, che altezza notevole ed il profilo superiore curvilineo ( con palese richiamo a costruzioni  tre o quattrocentesche ), sembra voler richiamare, come richiama nel fatto, gli archi dei corpi vicini, sebbene esso abbia quella forma solo per ragioni di resistenza; infatti sugli architravi a sezione costante vi è sempre un arco di scarico che manca nell’altro caso.

         Le mostre o i contorni delle porte arcuate sono in pezzi minori, disuguali, con precisazione

del concio di chiave. Gli archi, salvo il solo esempio ricordato, sono a pieno centro. In pochi casi l’architrave è sorretto agli appoggi da mensole di comune fattura e senza decorazione, assente del

resto, stilisticamente, da tutto il complesso.  Solo sulla porta di accesso alla corte, sopra la chiave,

aggetta una testina – ròsa ora dal tempo anche perché ricavata nella pietra men dura - , secondo

un modo rilevato in alcune case di Vernazza, ed in qualche minore costruzione quattrocentesca

di Val di Vara ( Castello ), che presenta una certa analogia stilistica con le case di Pontevecchio.

        Queste avevano una cornice terminale, costituita da elemento a gola, senza listello alcuno superiormente, posta in opera sopra un sottile elemento di pietra o di ciottolo corrente su tutta la muratura a segnarne il limite ed a completare, con il limitato aggetto, la cornice stessa.

Elemento questo non nuovo sebbene il rilevato piuttosto a ripetere il limite di un arco ( pieve di

S. Prospero a Vezzano) che non a finire un piano;  e non rilevato invece come parte di cornice.

         La conservazione delle case di Pontevecchio ha seguìto  naturalmente, nell’abbandono,

in diretta dipendenza i sistemi costruttivi. Ove la muratura era serrata e giusto l’uso delle malte

e delle scaglie essa ha retto agli insulti del tempo ed a quelli di altri agenti;  ma dove ( elemento

qui detto della torre ) il ciottolo più che la pietra e gli scapoli ne hanno costituito il corpo , essa

ha facilmente ceduto, come nei muri più a valle per i quali l’artificio ricordato per il gioco delle

ombre è stato veramente deleterio.

          Poca durata hanno avuto nell’abbandono gli orizzontamenti lignei.

L a datazione del nucleo di Pontevecchio  deve essere  fatta, nell’assenza di notizie, sugli elementi offerti  dalle  murature.  Fuor di dubbio da queste che le strutture precisino tra la seconda metà del quattrocento ed il primo cinquecento l’epoca del loro innalzamento, che ha avuto inizio da quelle a monte per finire con quelle a nord.

E  questo succedere, nell’interpretazione che mi è parso poter dare a ciascuna delle piccole  fabbriche, porterebbe a vedere dapprima, o per prima cosa, una guardia quindi un ospizio, poi le dipendenze.

          La diversità dei vani ai piani terreni  e soprattutto l’ampiezza delle porte di accesso a quei vani  caratterizzano e precisano le antiche destinazioni del gruppo. I vani a porta ampia e superiore ad un metro e mezzo, chiusi negli altri lati, furono stalle; i vani a porta stretta, intorno cioè al metro o poco più, ammisero l’accesso ad un piano superiore. La funzione di ospizio o di stazione, oltre quella di parziale residenza, per il piccolo nucleo è ancora più evidente.  Il  nome che conserva la strada che scende dalla Spolverina – strada dei mulattieri – per sottolineare la continuità, in certa epoca almeno, di traffici dal litorale all’Aulella per quella strada che esistente sicuramente nei primi secoli dell’era volgare si vuole oggi diversamente   tracciare.

 

Mario Nicolo' Conti  1965